TR
E N T O D I M A S C H E RE, SA T I R I E ALTRE
RAFFIGURAZIONI
FANTASTICHE E MERAVIGLIOSE
"The
movement was just as much a Counter
Renaissance
as a Counter Reformation... “.
La parte più consistente di questo variegato patrimonio è visibile in alcuni palazzi del centro storico: palazzo Trautmannsdorf-Salvadori, in piazza della
Mostra, davvero notevole per le decine e decine di maschere presenti nelle sue facciate; palazzo Marzani, di fronte al Duomo; palazzo Sardagna, palazzo Bortolazzi, palazzo
Galasso e palazzo Geremia. Maschere e grottesche non rappresentano un capitolo particolarmente approfondito nei manuali di storia dell'arte; costituendo una presenza a margine
della “grande arte”, esse vengono spesso bollate con la parola 'capricci'. L'uso di questo termine per tali maschere può però anche risultare riduttivo e fuorviante: il caprice,
inteso come specie di fantasia improvvisata dell' artista, un contenitore in cui riversare un pensiero svagato o un' estrosa invenzione,
è tale da far apparire la questione . delle decorazioni come un aspetto fine a se stesso e decisamente marginale. Tale approccio al problema della decorazione riflette, pure,
come vedremo, gli stessi concetti che eruditi e teologi della controriforma elaborarono a critica delle decorazioni a grottesca. Ma questa rigida concettualizzazione spiega
solo in parte il polimorfico complesso di mascheroni presenti a Trento, che pare invece riallacciarsi a una concettualità estetica che il Concilio tridentino cercò di
sradicare. Come poté dunque essere realizzato a Trento, e in uno stesso periodo, un repertorio decorativo di mascheroni stilisticamente così diversi l'uno dall'altro? Quali
elementi dello stile rievocano i dibattiti e le ideologie di un'epoca? Che significato assume questa evidente rottura stilistica dalle forme della tradizione c1assica proprio
nella città posta a baluardo del cattolicesimo riformato? Il significato di questo
hiatus
stilistico rispetto alla più
convenzionale estetica barocca appare del tutto inesplorato. E se si pensa che a proposito del genere
minore
dei 'capricci' si sono espressi alcuni fra i più influenti
teorici della controriforma, l'intera questione può rivelarsi niente affatto marginale soprattutto alla luce delle diverse ideologie che circolavano all'epoca. Ma per avere un
quadro del dibattito filosofico e teologico di quegli anni sarà opportuno fare un breve passo indietro. Sul finire del Quattrocento l'arte delle decorazioni conobbe un nuovo e
vitale impulso con la scoperta della celebre Domus Aurea: moltissimi furono gli artisti che scesero nelle stanze, ormai da secoli ingombre di terra, della sontuosa villa romana
per studiare e copiare le originali decorazioni qui presenti. Le volte e le pareti della Domus offrivano agli occhi sbigottiti degli artisti un tesoro di motivi ornamentali,
dipinti o a stucco, caratterizzati da fantasie bizzarre e con una spiccata tendenza alla deformazione del dato naturale. Trovandosi in ambienti di fatto simili a 'grotte', tali
decorazioni presero popolarmente il nome di 'grottesche'. Dopo il sacco di Roma del 1527 e la conseguente diaspora degli artisti, le grottesche divennero una vera e propria
moda che si diffuse rapidamente in Italia e in Europa: un esuberante repertorio metamorfico di racemi, chimere e grifi andò sviluppandosi, talora, sino a dismisura. I teorici
della controriforma si schierarono apertamente contro gli eccessi decorativi delle grottesche e, in particolare, delle interpretazioni che ne fece il Manierismo;
interpretazioni che sconfinavano apertamente nell'irrazionale e che, svincolate dall'ortodossia delle fonti archeologiche, venivano da essi stigmatizzate, sull' esempio di
Vitruvio, come vani eccessi della fantasia soggettiva. Il cardinale Paleotti e altri teorici della Controriforma,come
il Gilio, biasimavano in particolare il fantastico e l'immaginario 'mostruoso' che alcuni artisti realizzavano con la libertà della loro fantasia: creature "che mai non
sono state né possono essere". Per il Paleotti, che partecipò al Concilio dal 1561 e coprì la carica di arcivescovo di Bologna dal 1582, si trattava niente meno che di
vane ed effimere fantasie individuali: immagini prive di ogni fondamento 'reale', così come
di finalità moralistiche e, dunque, ben lontane da quella particolare costruzione di un immaginario collettivo
tanto auspicata dal cattolicesimo riformato.